Fra due mesi tornerà il “giorno della memoria”, che già doverlo codificare con legge ha avuto ed ha il significato della scarsa propensione, anche del popolo italiano, a fare memoria dell’abominio della storia del secolo breve: la Shoah. In questi giorni, chi ha bussato alla burocrazia del palazzo delle Aquile per verificare la possibilità di un contributo pubblico all’allestimento di uno spettacolo di “teatro civile” (tema: la memoria dello sterminio di un popolo) si è sentito rispondere che la coperta è corta e la ruota gira. Sarebbe facile argomentare il tentativo di una omologazione al “nuovo che avanza” a livello nazionale. Vogliamo pensare che quel cattivo pensiero sia solo una supposizione. E che l’annunciata rotazione delle provvidenze sia solo il frutto bacato di quel grillismo che proclamava l’uno uguale a uno. Come se le opere dell’ingegno e della cultura fossero tutte uguali. Tutte bisognose di sostegno pubblico, questo sì, uguali no. Il non accogliere una richiesta in nome della rotazione è in primo luogo una dimostrazione di scarsa lungimiranza e poca dimestichezza col “teatro civile” (chi scrive testi e mette in scena oggi racconti dell’orrore dell’altro ieri?). Al tempo stesso rende palese la volontà di cancellare anche le ultime tracce di una memoria che, per legge e per decenza, tenta di sopravvivere all’oblio. Il “conte zio” che abita il palazzo delle Aquile ha fatto proprio il monito del personaggio del Manzoni: “Sopire, troncare, padre molto reverendo, troncare, sopire”. Perché quel matrimonio fra “teatro civile e memoria”, il 27 gennaio 2023 non s’ha da fare. (af)
Nell’avvicinarci all’annuale appuntamento con la Memoria, forse un modesto supplemento di riflessione potrebbe non essere superfluo. Come noto, il 27 gennaio di ogni anno, cioè in corrispondenza con la data di arrivo ai cancelli di Auschwitz della 60.ma Armata del I° Fronte Ucraino al comando del maresciallo dell’U.R.S.S. Ivan Konèv, si celebra, in molti Paesi, il momento commemorativo per tutte le vittime dell’Olocausto.
Qualche anno prima che l’O.N.U. proclamasse internazionalmente questa straordinaria ricorrenza (Risoluzione dell’Assemblea O.N.U. n. 60/7 del 1 novembre 2005), con grande sensibilità istituzionale e civile, l’Italia ha inserito nel proprio “corpus giuridico” la Legge 20 luglio 2000 n. 211 – “Istituzione del Giorno della Memoria in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei Campi nazisti” – dimostrando così una lungimirante attenzione verso l’unicità e la particolarità di quella Memoria. E oggi?
Ad oltre vent’anni di distanza, il bilancio che si può trarre è tutt’altro che confortante. Certo, molti giovani hanno scoperto cosa accadde alle generazioni che li hanno preceduti; molte storie sono venute a galla grazie alla forza delle testimonianze dei “Sommersi e dei Salvati”, ma ciò nonostante si registra, con crescente frequenza, una continua rivitalizzazione dell’antisemitismo, spesso confuso con l’antisionismo o la critica allo Stato di Israele e, contemporaneamente, il progressivo rientro di quel “Giorno” nell’alveo delle consuetudini e quindi della normalità, che prelude all’oblio.
Ne eravamo e ne siamo consapevoli.
Un lento processo di erosione mediatica e culturale è venuto via via affermandosi in Occidente, provocando il graduale affievolirsi delle pubbliche attenzioni a causa di una pluralità di fattori, fra i quali spiccano l’ineluttabile scomparsa degli ultimi Testimoni; una ritualità stanca e stancante; l’avvento di nuovi negazionismi, avvalorato dalla complicità di una comunicazione veloce, diffusa e priva di filtri e, buon’ultima, una certa carenza di proposte originali.
Come non condividere quindi le lucide parole della senatrice Liliana Segre che preconizzano, nell’arco di un decennio, la completa dimenticanza di quel dramma relegato, al massimo, in poche righe dentro qualche manualetto di storia? Come non sottoscrivere questa previsione, quando, anche di recente, qualche pubblico decisore ha affermato che ormai la “Giornata della Memoria” rientra nella normalità degli eventi culturali e come tale va trattata?
Forse, per nostra pochezza, abbiamo compreso male – e se così fosse ce ne scusiamo – ma non ci abbandona la sensazione che il “Giorno della Memoria” venga progressivamente e burocraticamente catalogato, anche nella civile terra dell’autonomia, al pari delle “Feste Vigiliane” o di altri consimili eventi. Non è, peraltro, questione solo locale. L’indifferenza e fors’anche un certo grado di fastidio aleggiano un po’ ovunque: in Italia come in Europa, quasi che fare tesoro della lezione della storia sia ormai solo uno stucchevole ed inutile esercizio accademico.
Tutto, insomma, sembra congiurare per disperdere il “Giorno della Memoria” fra le tante ricorrenze civili e religiose, posto che l’appuntamento non sembra più così attrattivo almeno per il grande pubblico, che è poi quello più esposto alle manipolazioni negazioniste presenti soprattutto sulle reti dei social. Eppure la realtà è ancora quella di ottant’anni fa. Nulla è cambiato nell’orrore che attraversò l’Europa ed il mondo intero. I Campi di concentramento – o ciò che ne rimane – sono ancora lì a ricordarci ogni attimo quel che accadde fra uomini normali in un tempo anormale.
Inoltrarsi fra le perdute lande di quell’incomprensibile che abbiamo imparato a definire con il termine ebraico di Shoah, significa percorrere, non un consueto tratto di strada nel reticolo della storia, bensì avventurarsi su di un sentiero carsico del tutto originale ed unico. Un sentiero che di rado emerge alla luce e che si sviluppa essenzialmente dentro le profondità più oscure del male verso un abisso che pare non avere mai fine, perché si replica da sé attraverso sempre nuove forme di ripulsa, paura e falsità.
Il XX secolo è stato, seppur nella sua brevità, il momento della storia umana dove più agevolmente è emersa tutta la capacità dell’uomo di uscire da sé stesso per diventare una fredda macchina di morte, senza senso e senza scrupoli. Una macchina che si è mossa sulla base di meccaniche semplici e di poveri carburanti: odio infinito quanto insensato; menzogna innalzata a verità incontestabile perché “verbo del capo”; demagogia brutale che alimenta la diffidenza verso ogni diversità; supposta superiorità razziale; tacitazione, per interesse o pavidità, della coscienza ed infine la violenza elevata a strumento dirimente della politica.
Solo così si spiega la trasformazione di popoli altamente civili e colti, come quello tedesco e quello italiano, da uno stato di convivenza, di reciproco rispetto e di integrazione dell’elemento ebraico e di altre “diversità”, alla discriminazione prima ed alla persecuzione poi, fino al massacro senza limiti, perpetrato come si trattasse dell’ovvia difesa di un corpo sociale aggredito da mortali fattori esterni.
Impiegati, artigiani, insegnanti, operai, contadini, infermiere e segretarie, ma anche avvocati, professori, medici ed intellettuali, nell’arco di pochi mesi, abbandonano infatti il proprio ruolo sociale e la propria umanità, per assumere una ferocia senza pari, mutando, non solo abiti e divise, ma anche la “forma mentis”, fino ad autoconvincersi della giustezza comunque della loro battaglia per la sopravvivenza. Di giorno spietati assassini di massa senza scrupoli e di sera, a casa, padri affettuosi e dolcissimi.
È nelle pieghe di questo inspiegabile meccanismo psicologico che le sofferenze inflitte ai figli di Israele divengono naturalmente parte di quella quotidianità dentro la quale gli aguzzini vivono normalmente durante la guerra e nella quale provano poi, spesso riuscendovi, a ritornare, senza alcun pentimento, alla fine del conflitto. La guerra, la persecuzione, i Campi e lo sterminio rappresentano insomma solo una parentesi che, una volta chiusa, permette di riprendere in mano i fili della vita, sia sotto il profilo morale come materiale, dentro una ritrovata normalità, nutrita di silenzi, dimenticanze e smemoratezze che lentamente appannano e minano il ricordo dell’orrore esercitato.
Si tratta di un atteggiamento che ha, nel tempo, innervato di sé la trasmissione della memoria dei vinti e che influisce contemporaneamente sul ricordo collettivo e pubblico di eventi che hanno prodotto una tempesta di sangue e di morte imparagonabile a qualsiasi altra tragedia occorsa nei secoli precedenti. Un ricordo che sembra oggi ridotto, anche in virtù del vento cambiato dentro le narrazioni politiche nazionali e locali, alla stregua di qualsiasi altra celebrazione del passato: dalla titolazione della piazzetta di paese alla sagra tradizionale del santo patrono.
A forza di rendere tutto omogeno, tutto “politically correct”, tutto “revisionato e revisionabile”, accade, ad esempio, che in qualche riunione di burocrati si convenga sul fatto che il “Giorno della Memoria” è divenuto ormai una normalità e come tale va trattato, anche applicando ad esso tutte le consuete regole che si utilizzano per ogni altro evento pubblico.
Sono i pericolosi segnali di una diffusa tendenza normalizzatrice che cela, anche a livello istituzionale, quella crescente insofferenza, qui evidenziata, nei riguardi di una Memoria che appare sempre più lontana, piccola e sfuocata; una Memoria di circostanza quindi e, come tale, ogni anno più inutile.
Certo, le dichiarazioni di circostanza, le corone d’alloro, la retorica della commozione e del ricordo, all’apparenza, non vengono mai meno, ma il processo di definitiva archiviazione della Shoah appare ormai irreversibilmente avviato. Ma non basta. Anzi.
Un po’ come accadde nella Spagna della “cacciata” nel 1492, proprio la mancanza della presenza ebraica dentro il tessuto sociale attizza ancor più la fantasia odiatrice ed evoca ovunque il rinnovarsi del complotto giudaico per il dominio del mondo. Dimenticare i milioni “passati per il camino” non comporta quindi la cancellazione del sogno di una razza ariana superiore; della perversione suprematista dei totalitarismi e delle “democrazie autoritarie” e, infine, della presunzione dell’uomo di farsi dio, ma nutre nuove intolleranze.
È in un tale contesto che l’antisemitismo prova a rialzare la testa, reimpossessandosi delle coscienze, ripetendo la sua menzogna storica, fomentando altro odio inutile e violento, in nome dei “valori della cultura occidentale”, di una aberrante versione del cristianesimo, dell’uguaglianza di classe e della lotta contro i capitalisti ebrei che tramano nel buio e ci avvelenano con i vaccini. Difendersi da questa congiura occulta, implica dimenticare il passato, ridurre la secolare narrazione della storia ad una trama per fumetti, negare e burocratizzare, rivestendo la montante intolleranza di una patina di normalità rassicurante e buona per tutti. È già successo una volta e, come insegna inascoltato Primo Levi, può succedere ancora.Ricordare la straordinarietà unica della Shoah deve invece rimanere un dovere morale e didattico imprescindibile per qualsiasi democrazia che ritenga di poter essere tale, ma soprattutto deve ritrovare la forza per essere antidoto indispensabile davanti al ritorno dei demoni dei nazionalismi, della purezza razziale e del rancore generalizzato verso tutti i propri sconosciuti simili. Solo quando questa “battaglia” culturale sarà vinta si potrà parlare di normalità. Prima, rischia d’essere solo complicità.