Ma perché fuggire proprio in Sudamerica? I motivi della scelta nazista di rifugiarsi “all’altro capo del mondo” sono parecchi. Anzitutto il territorio sterminato e segnato da una natura selvaggia, nella quale non è affatto difficile nascondersi per sottrarsi ad ogni possibile caccia. In secondo luogo poi, per il clima politico che non appare per nulla ostile, anche in virtù dei flussi migratori europei, ma soprattutto per un carattere storico degli ex possedimenti coloniali spagnoli.
In quelle terre c’è un latente antisemitismo risalente ancora alla “cacciata dalla Spagna” del 1492 e alla “limpieza de sangre”, primo esempio di “razzismo biologico” nella storia della persecuzione contro gli ebrei. Inoltre, un peso notevole va attribuito anche al legame stretto e vivo di larga parte della dirigenza sudamericana con il regime franchista, il quale trasmette le sue simpatie per il nazismo e il fascismo anche al di là dell’oceano. Infine una profonda e diffusa avversione per il socialismo e il comunismo, alimentata anzitutto dai grandi proprietari latifondisti e dai contatti con gli Stati Uniti, che contraddistingue le economie sudamericane del dopoguerra.
Insomma, i superstiti del “Reich del millennio” sanno di poter contare su amicizie ed attenzioni potenti e molto disponibili, come quelle di Juan Domingo Pèron, presidente dell’Argentina, il quale, pur senza essersi mai definito nazista, non nasconde la sua personale ammirazione politica per Hitler e Mussolini, anche ispirandosi ad alcune scelte politiche ed economiche dei relativi regimi.
Una certa vicinanza alla Germania nazista viene testimoniata dai Paesi latinoamericani ancora agli inizi del conflitto, come dimostra l’esempio dell’incrociatore pesante “Admiral Graf von Spee”, gioiello della marina da guerra tedesca. Dopo una crociera come “nave corsara” mascherata e mimetizzata, la “Graf von Spee” dà vita alla prima battaglia navale della seconda guerra mondiale – la battaglia del Rio del Plata – contro una squadra di incrociatori inglesi che la braccano e la inseguono, costringendola a rifugiarsi nel porto neutrale di Montevideo in Uruguay.
Lì, la nave tedesca chiede di poter rimanere per riparazioni almeno due settimane, ma il governo uruguayano, pressato dagli inglesi, concede solo 72 ore, trascorse le quali la nave prende il largo e si autoaffonda entro il limite delle acque uruguayane. Tutto l’equipaggio e il comandante Hans Langsdorff vengono internati in Argentina da dove molti fuggono facilmente per far ritorno poi in Germania. Ma torniamo al dopoguerra.
Accogliere i criminali di guerra nazisti e fascisti rappresenta spesso per il Paese che ne accetta l’ingresso un vantaggio non secondario. Si tratta infatti, non solo di convinti anticomunisti, ma soprattutto di tecnici preparati; di esperti in sistemi polizieschi e di sicurezza; di medici e scienziati di prim’ordine ed, infine, anche di una “cortesia” fatta agli Alleati occidentali – e soprattutto agli americani che già stanno aiutando parecchi nazisti a fuggire dall’ Europa – togliendo dalla circolazione e quindi dal rischio di imbarazzanti arresti, uomini che partecipano attivamente a quella “guerra fredda” già in atto con la fine del secondo conflitto mondiale.

Nel 2012, il giornale inglese “Daily Mail” calcola che siano oltre 9.000 i nazisti e fascisti di varie nazionalità che hanno trovato sicuro e comodo rifugio in Paraguay, Uruguay, Cile, Bolivia, Brasile, Perù e soprattutto Argentina. Sono Paesi che diventano una “seconda patria” per chi è ricercato dalla giustizia militare e civile di molte nazioni belligeranti e vittime dell’occupazione nazifascista del proprio territorio.
Certo, alcuni casi si concludono con arresti, estradizioni e processi nei tribunali francesi, tedeschi, italiani, belgi e olandesi, ma si tratta di numeri veramente irrisori, se messi in relazione al totale presunto di coloro che sono riusciti a scappare. La notorietà poi di alcuni personaggi – come Adolf Eichmann le cui modalità d’arresto da parte del Mossad israeliano divengono oggetto di dispute diplomatiche accese; o “Misha” Seifert che vive per anni indisturbato in Canada o, ancora, Klaus Barbie il “boia di Lione” o Franz Stangl, comandante dei Campi di sterminio di Sobibor e Treblinka e della Risiera di San Sabba a Trieste, fuggito prima in Siria e poi in Brasile – avvolge di ulteriore mistero e “mito” la caccia ai nazisti e l’incedere della giustizia, ma consente anche di fa dimenticare tutti gli altri.
Eppure pochi di loro camuffano a lungo il proprio aspetto e la propria identità. Si integrano rapidamente e senza destare sospetti nelle varie comunità tedesche già preesistenti in America latina e diventano personaggi rispettabili e rispettati, sul cui passato nessuno vuole scavare.
Nella Patagonia occidentale si trova, in quegli anni, un lindo villaggio tipicamente bavarese e che di ispanico ha solo il nome: San Carlos de Bariloche. Oggi si tratta di una moderna stazione sciistica, molto alla moda e meta ambita degli amanti della montagna. La prima impressione che il centro urbano regala al visitatore è quella di un perfetto e lindo paese alpino bavarese o tirolese: i prati verdi, i gerani ai balconi, le mucche al pascolo.
Urbanistica, abitazioni, luoghi di culto, arredo urbano e birrerie sono la replica perfetta di un qualsiasi “Dorf” delle Alpi e anche la lingua prevalente è il tedesco, anziché lo spagnolo. Del resto non v’è di che stupirsi solo pensando che San Carlos de Bariloche viene fondata nel 1895 da un immigrato tedesco: Karl Wiederhold e diventa subito punto di approdo per molta emigrazione tedesca dalla fine del XIX secolo ai primi anni di quello seguente. Quello che negli anni Quaranta è ancora un villaggio, adesso si è trasformato in una città di oltre centomila abitanti, come Trento, Bolzano o Innsbruck, ma anche queste dimensioni risultano ottimali per chiunque voglia mimetizzarsi e nascondersi al mondo. Discrezione, empatia, solidarietà e omertà fanno di San Carlos de Bariloche un luogo di massima sicurezza, dove farsi dimenticare in fretta dalla storia e dove ricominciare un’altra vita. Secondo alcune fonti, è proprio qui che trova rifugio anche quel Fiore Lutterotti che, forse sfuggito alla morte, riesce ad arrivare in Patagonia, sottraendosi così alla giustizia che lo vorrebbe processare per il suo ruolo di spia della Gestapo e di infiltrato nelle file della Resistenza trentina.
Solo nel 1994 – quando una troupe televisiva statunitense della rete ABC individua ed intervista un anziano, ancora molto arzillo, cittadino di San Carlos de Bariloche che risponde al nome di Erich Priebke – il mondo si accorge di quella cittadina andino/tirolese, svelandone l’anima più oscura. Infatti, quando è chiaro che quell’anziano altri non è se non il capitano delle SS Priebke, responsabile fra l’altro dell’eccidio delle Fosse Ardeatine. Quando l’Italia ne chiede l’estradizione, alunni ed insegnanti della scuola “Primo Capraro” di San Carlos de Bariloche, della quale Priebke è stato per decenni l’apprezzato direttore didattico, organizzano una partecipata marcia pubblica per protestare contro l’arresto e l’estradizione di quel “vecchio e rispettabile uomo di scuola”.
San Carlos de Bariloche nasconde – come molti villaggi e masi sudtirolesi o città come Merano – parti non irrilevanti dell’orrore nazifascista, ma quanti sono i luoghi come questi – e non solo in America latina – dove le “culture” dell’odio hanno cercato oblio e riposo per poi ripartire nel loro viaggio senza fine dentro la storia dell’umanità?
(10 – continua; le precedenti puntate sono state immesse in rete il 1, 11, 17, 25, 30 settembre; 8 e 15 ottobre; 2, 14 novembre 2022)