“Domani è la festa-memoria dei Santi e dopodomani, non a caso, quella dei Morti. Santi e Morti, cielo e terra e noi in mezzo a chiederci: quale è il mio destino? L’eterna vita o l’eterno nulla?” È quanto si chiedeva, lunedì 31 ottobre 2022, lo scrittore Alessandro D’Avenia nella sua seguita rubrica, “Ultimo banco”, in prima pagina sul “Corriere della Sera”. E sotto il titolo “Ne è valsa la pena”? proseguiva: “Quel che resta della risposta è Halloween, un brivido di horror e zucche, anche se la parola, come sempre, dice molto di più […] Morti e Santi sono associati perché sono i due punti di vista sulla morte: il tempo e l’eterno”. Non da meno la riflessione dello scrittore e regista teatrale Renzo Fracalossi, una delle colonne di questo “foglio liquido”.
Siamo riusciti a rendere anche la morte una carnevalata. Torno a casa, in un più che anomalo calore pomeridiano di fine ottobre, mentre incrocio bimbi con i loro genitori ed adolescenti con la loro solitudine, mascherati e segnati dalla frenesia di Halloween.
Li osservo costumati e truccati. Guardo una vetrina che espone finte lapidi di cartone con un teschio che occhieggia dietro l’acronimo “R.I.P.”. Qualche mamma si è addirittura apparecchiata più dei propri figli e, festosa, li accompagna a sfilare in centro, magari assaporando un balzo indietro verso la gioventù.
Alla mia età sono i ricordi che cominciano a prevalere sulla speranza e così, fra un obeso Dracula, un lentigginoso pipistrello e qualche improbabile strega, ripenso ai miei “vecchi”, che ancora tanto mi mancano; agli amici che sono andati avanti; a tutti i vuoti che impoveriscono il mio quotidiano e mi sfugge il senso di tutta quest’urgenza festaiola.
Con gli stessi brividi di freddo di allora, mi ritrovo bambino in quei gelidi pomeriggi quando l’autunno frastornava di colori il grigiore di un cielo che metteva a dormire la terra. Si stava, in annoiato silenzio, davanti a lapidi e volti che ci sembravano tutti uguali, nel loro sbiadito “bianco e nero”, mentre tremolava la preghiera, spesso masticata in un latino più orecchiato che compreso. “Rechia meterna …” in un alito di vento freddo che arrossava le ginocchia, ancora non coperte dal pantalone lungo che tanto “ai bòci ghe fa ben!” Non vedevamo l’ora che tutto finisse per rintanarci a casa di qualche parente, dove la magia della fiamma e della “fornasèla” scaldava i corpi e le fantasie. Castagne e acqua, per noi ragazzini. “Vin picol” per gli adulti, le cui narrazioni si confondevano con il crescere del volume delle voci che citavano e ricordavano e richiamavano, mentre qualche lacrima scivolava su mani ruvide e la guerra, finita poco meno di trent’anni prima, ritornava impetuosa. Un cugino di mia madre, Ruggero, disperso in Russia, compariva così, dalla nebbia nevosa della steppa, ad Ognissanti ed il suo sorriso dolce – così lo descrivevano – si diluiva fra le altre assenze. Era un rito, che ci avvicinava però al mistero, che ci faceva sentire l’immanenza di una immensità sconosciuta e temuta, ma non esorcizzata.
Adesso di tutta quell’impalcatura, che lasciava tracce profonde di moralità e ci insegnava il valore di tramandare i valori, non resta più nulla. Non portiamo più i bambini ai funerali, perché magari ne risentono psicologicamente. Li rendiamo solo più stupidi e soli, insegnando loro che la morte si raccoglie dentro una domandina impertinente: “dolcetto o scherzetto?”. Guardo queste mascherine e non riesco più a scorgere, dietro a loro, un orizzonte conosciuto. Sento tutto il vuoto di “americanate” che tolgono il sapore del vero e riducono tutto ad uno show.
Kant ci parlava della morte immaginando il “cielo stellato sopra di me e la legge morale in me”. Ci invitava a scegliere, richiamando il libero arbitrio che è, in fondo, anche una risorsa religiosa. Mi sono chiesto cosa mi direbbe un adolescente, tatuato e mascherato, se gli ricordassi la lezione kantiana. Forse nulla. Guarderebbe a Kant – ed a me, suo “profeta” – come si guarda un “pauper”, cioè con commiserazione e fors’anche un briciolo di pietà.A noi rimane “Sòra nostra morte corporale”, a lui il bagliore luciferino delle zucche intagliate ed illuminate. Non so cosa ci sarà dopo l’attimo finale. Ho qualche intima speranza, ma la tengo per me. Mi auguro solo non sia una festa di Halloween.