Cento anni fa la “marcia su Roma” che avviò la dittatura di Mussolini e che caratterizzò tutto il Ventennio successivo: dal 1922 al 1943. L’anniversario cade, per una coincidenza che talvolta la storia sa proporre, l’indomani dell’insediamento in Italia del Governo della destra che ha vinto le elezioni. Ma poiché “la storia è una meteora e gli uomini (e le donne) hanno la memoria corta” (copyright Aldo Gorfer) e la scuola è in tutt’altre faccende affaccendata, è doveroso rammentare con la penna di Renzi Fracalossi ciò che accadde giusto cento anni fa.
Foligno, Monterotondo, Santa Marinella e Tivoli. Sono questi i luoghi dai quali, il 28 ottobre 1922, circa 16 mila fascisti si dirigono verso la capitale. Prende così avvio quel fenomeno eversivo armato, voluto dal leader del Partito Nazionale Fascista Benito Mussolini e che passa alla storia con il pomposo appellativo di “marcia su Roma”.
Non si tratta però di un episodio di folklore politico, né di una vicenda a sé stante, perché quell’evento rappresenta il culmine di una strategia avviata ancora nell’ottobre del 1920 e giocata sulla mobilitazione del fascismo militante, che persegue l’obiettivo di distruggere, anche fisicamente, gli avversari politici: dapprima le forze di sinistra e poi i popolari ed è in questa strategia che il fascismo muta anche il profilo del proprio nemico: dal bolscevismo delle prime fasi, allo Stato liberale contro il quale appunto si “marcia su Roma”.
Quella “marcia” nasce però e prima del suo compiersi, nelle periferie del Paese, attraverso un’offensiva continua che si sviluppa anzitutto nelle regioni settentrionali e che scardina le rappresentanze democratiche delle istituzioni sul territorio, come ben dimostra il caso di Trento dove, ancora nei primi giorni di ottobre del 1922, i fascisti ottengono, con la forza, l’allontanamento dell’on. Luigi Credaro, giudicato debole e sensibile alle istanze locali, dal ruolo di “Commisario generale per le Terre redente della Venezia Tridentina”.
Gli avvenimenti di quelle ore sono confusi e frenetici. Alle ore 9 del 28 ottobre – e davanti all’incombere dei fascisti sulla città – il decreto di “stato d’assedio” viene sottoposto alla firma del re Vittorio Emanuele III. La sera precedente, il Consiglio dei Ministri lo ha approvato, ma quella mattina il re si rifiuta di firmarlo. Tre ore dopo, il governo annulla, con un telegramma a tutti i prefetti, le disposizioni previste appunto dallo “stato di assedio”. Passano le ore. Alle 16 il re incarica l’on. Antonio Salandra di provare a formare un nuovo gabinetto, ma il tentativo abortisce subito per la netta opposizione dei fascisti che, fra l’altro, diffidano le principali testate giornalistiche, non schierate a loro favore, dall’uscire in edicola il giorno seguente.
Il 29 ottobre, il re decide quindi di convocare al Quirinale il capo del fascismo per affidargli l’incarico di formare un nuovo governo. Mussolini, che è rimasto a Milano e si è tenuto prudentemente distante da Roma e dai possibili rischi di fallimento, sale in treno in serata per la capitale. Il giorno dopo, il 30 ottobre, riceve l’incarico e nella stessa serata presenta la lista dei ministri al re, il quale, debole e inetto, accetta tutte le imposizioni fasciste. Acconsente perfino ad una sfilata delle squadre armate davanti all’Altare della Patria e al palazzo del Quirinale, a suggello dell’ormai avvenuto “colpo di stato”. Il 31 ottobre, il “Popolo d’Italia”, il giornale di Benito Mussolini e divenuto “organo del Partito Nazionale fascista”, pubblica l’ordine di smobilitazione delle squadre, che però non smettono di bastonare, di usare violenza e largheggiare con l’olio di ricino. In questo disordinato rientro, sospeso fra tragedia e farsa, si conclude la “marcia su Roma”, che nei fatti è ben lontana dalla retorica che ne accompagna poi il mito per tutto il Ventennio successivo.
Mussolini, giunto al governo, monopolizza progressivamente il potere e lo stabilizza grazie all’evidente appoggio della monarchia, dell’esercito e dei mondi imprenditoriali, trasformando in breve il sistema parlamentare in dittatura. Ma come si è arrivati a questo punto?
La fine della grande guerra pone anzitutto alcune questioni fondamentali al Paese. L’Italia è profondamente divisa e il mondo contadino, che ha offerto forse il tributo di sangue più consistente durante il conflitto, non viene integrato nei processi di sviluppo e di cambiamento in atto nel dopoguerra. Non solo: dopo tanti morti e tante sofferenze, gli italiani pretendono di essere compensati anche sul piano politico. La vecchia dirigenza liberale e massone appare inadatta e priva di legittimità politica per dar seguito alle domande nuove che salgono dal Paese. È così che il cuore del dibattito esce dalla sua naturale sede parlamentare ed entra invece nelle piazze, con un inatteso portato di violenza, appresa dentro le trincee.
Il fascismo, che nelle sue origini vive una confusa identità fra reazione e rivoluzione, diventa in breve il portavoce del disagio sociale dilagante, riuscendo a mettere, in nome di una fittizia rivoluzione, i ceti medi in contrapposizione netta con quel proletariato che è interprete pressoché esclusivo del movimento socialista e dei pericoli che esso rappresenta.
Davanti a questo scenario in continua ebollizione, la cultura liberale risulta del tutto inadeguata: agrari e industriali, ma anche operai e contadini, non trovano più nella dialettica sociale la necessaria mediazione istituzionale dello Stato. Si scatenano così in un gioco al massacro che vede tutti contro tutti e che legittima il fascismo quale baluardo unico per arginare le masse operaie che guardano, con speranza crescente, all’esperienza bolscevica.
In questo ruolo di “difensore dell’ordine”, il fascismo non si limita però ad occupare il potere. Esso mette infatti in atto un tentativo, peraltro riuscito, di non essere solo regime, ma anche di trasformarsi in un nuovo sistema morale, penetrando nelle coscienze per dar vita ad un modello totalitario dove le masse interiorizzano i valori del fascismo e ne diventano fedeli interpreti. Ogni attimo del vivere singolo e collettivo necessita quindi di un controllo: dall’infanzia all’università, tutto deve essere ricondotto ai fini del progetto totalitario e dominato da una propaganda quotidiana e ricca di messaggi semplici ma convincenti.
Quest’operazione di mistificazione complessiva consente di vivere la perdita delle libertà e dei diritti, non come un trauma profondo, bensì come un prezzo da pagare per il ritrovato prestigio nazionale e per quella pace sociale che il regime impone anche brutalmente. Il fascismo si radica così dentro la società italiana, favorendo di fatto e soprattutto nel dopoguerra, una visione del tutto falsata del Ventennio e che limita la critica del regime ai soli anni della guerra e della sconfitta.
Il fascismo entra nella carne del Paese e lascia in essa segni profondi.
Caso unico in Europa esso, pur dopo la caduta e la sconfitta, si perpetua e rinasce come “neofascismo”, quasi senza alcuna soluzione di continuità, anche navigando dentro quelle contraddizioni evidenti fra chi aspira a una destra moderna e liberal-democratica la quale, invece, coltiva la memoria fascista senza alcuna rielaborazione della medesimaLe parole d’ordine del “neofascismo” sono, a ben vedere, sempre le stesse di cento anni fa: onore, patriottismo, tradimento, mentre si tende a sottolineare l’idea che il fascismo sia stato ormai consegnato alla storia.
È un tentativo pericoloso di archiviazione – o addirittura di oblio – che permette alla destra degli anni Duemila, al di là di qualche frase di circostanza, di evitare ogni giudizio politico sul fascismo e la sua eredità. In questa insufficienza di analisi e di dialettica si alimenta anche il mai sopito sospetto sulla grande abilità mimetica del fascismo, che riemerge rinnovato e ripulito dalla polvere della storia ma, pur sotto altre spoglie, rischia di non smettere mai di essere sé stesso.