Una delle più intense e drammatiche pagine della storia italiana si è chiusa e con essa anche gli ultimi soffi del Novecento. Va così in soffitta tutto l’armamentario ideologico che, fin qui, ha caratterizzato la polarità della nostra politica, portando a compimento un processo iniziato ancora con l’avvento del berlusconismo.
Fu quella “discesa in campo” che promosse infatti il lento, quanto inesorabile, sdoganamento della destra e l’avvio di una “lunga marcia” verso il potere che ha trovato in questo voto la sua conclusione, anche in virtù della caparbietà di una giovane “borgatara romana de Roma” e di un brillante avvocato milanese, di origini sicule e di aspetto luciferino. Purtroppo però non si sono archiviate solo idee e ideologie, ma anche valori, passioni, idealità e battaglie che hanno segnato un’epoca e formato generazioni. Tutto è stato smantellato, mentre il cantiere della storia smobilita.
Se da un lato, l’antico argine dell’antifascismo non è affatto riuscito a contenere l’impeto delle correnti sovraniste e populiste che hanno determinato la crescita della marea del consenso, dall’altro questo è il banco di prova per verificare finalmente l’esistenza o meno, in Italia e di conseguenza in Europa, di una destra moderna, liberale e pienamente democratica, legittimata a governare dalla forza indiscutibile dei numeri, ma anche dalla sua capacità di recidere i legami con il passato e di mettersi in sintonia con la contemporaneità e le sue plurali complessità.
Nessuno è oggi in grado di dire, ragionevolmente, se l’esito elettorale sarà di lunga o breve deriva; se si svilupperà in forma favorevole o dannosa per quegli interessi nazionali che comunque non possono essere disgiunti da quelli europei. Eppure una cosa viene anticipata, senza tema di smentita, da questa consultazione elettorale e cioè la fine dello schieramento degli elettorati per ideologia e per appartenenza e, invece, l’avvio della stagione di un consenso flessibile e molto mobile, rianimato in questo caso dalle mai sopite aspirazioni nazionali verso una costante conservazione del precostituito, ma pronto anche a diventare altro se posto di fronte a nuove e più convincenti suggestioni.
Tutto risulta quindi ulteriormente fluido. La fiducia – peraltro adesso assai fragile – nei confronti della politica muta con il “mutar dell’aere” ed i destini personali dei leader hanno traiettorie sempre più corte. Nel meridione sembra che, per certi versi, il tempo si sia ammuffito nelle scarpe di Lauro (il “Comandante”, ben s’intende), perché fa ancora presa un certo populismo paternalista mascherato da risposta a domande contingenti come quelle sulla redistribuzione del reddito. Altrove, le filiere del consenso si trasformano e parlano con strumenti ben diversi da quelli tradizionali, sia essi ideali o pratici, palesando anche un ormai relativo appeal dei “social-media”, mentre i giovani, che sfilano magari sotto le bandiere del “Friday for future” cantando “Bella ciao”, non si fanno alcun problema a sostenere poi nell’urna chi stende il braccio romanamente al grido di “Presente!”. Un confuso “brodo” insomma di nuove esigenze, incrostate istanze, coerenze ed incoerenze e deboli speranze si mescola in un enorme calderone, dentro il quale stanno già ribollendo altri problemi, altre domande, altre prospettive ed altri valori, in una parola, il futuro.
Ma come siamo arrivati qui?
Ad esempio, abbiamo abbandonato il versante formativo ad una inclinazione tesa più a sperimentare formule indefinite che non ad investire su di un serio insegnamento della contemporaneità. Abbiamo deciso di appaltare, per comodità o pigrizia, il piano valoriale solo all’apparenza edonistico-televisiva, non cogliendo la domanda di nuovi modelli e di più virtuosi comportamenti singoli e collettivi che saliva da fenomeni come “mani pulite” e dalla stagione dell’antimafia militante. Abbiamo riportato indietro l’orologio dello sviluppo e della responsabilità, riassestando le lancette sull’ora di un rinnovato assistenzialismo, portatore dei germi pericolosi del clientelismo, spacciando questa vecchia ricetta come innovazione e rivoluzione ed abbiamo creduto che sull’altare del virtuale si dovesse sempre sacrificare il reale.
Si è così andata spegnendo qualsiasi tensione etica, al punto che il solo evocarla è diventato anacronistico, mentre il dibattito politico e sociale, sempre più prigioniero degli slogan anziché dei ragionamenti, ha offerto al cittadino solo lo stanco alternarsi di simili ed uguali.
Ci è voluta l’emergenza pandemica prima e socio-economica poi, legata anche alla guerra russo-ucraina, per disvelare la dimensione da statista di un banchiere internazionale, figlio di una dimenticata cultura del rigore e della coerenza, che ha saputo restituire, seppur per un fuggevole attimo a questo Paese – e non a sue frazioni o fazioni – un inatteso orgoglio, una riconoscibilità ed una credibilità importanti ed un tenue filo di speranza verso irreversibili cambiamenti in positivo. Poi, d’un tratto ed inspiegabilmente – almeno per noi mortali – tutto è stato seppellito, nel volgere di poche frenetiche ore, sotto un cumulo di convenienze partigiane, di cecità egoistiche e di aspirazioni personali, nella ricerca dell’avvento di un tempo diverso, “libero e giocondo sul colle nostro”, che apre una stagione sconosciuta: tanto chiara nei suoi numeri quanto incognita nei suoi approdi.
E così, a cent’anni dalla “marcia su Roma”, i commenti della stampa estera ricordano al mondo – e molto meno a noi – come l’ultimo lungo governo della destra in Italia fu quello di Mussolini e con questo bagaglio affrontiamo un futuro carichi di ulteriori interrogativi. Riusciremo ad essere accettati ancora in Europa, come partner credibili o saremo ostaggi della perplessità franco-tedesca e fors’anche americana? Saremo travolti dall’incapacità di agire subito per governare, senza favoritismi, le risorse del P.N.R.R. o saremo sommersi da costi energetici che ci impoveriranno radicalmente in pochi mesi? E dopo una gestazione durata ottant’anni, la nuova destra italiana sarà in grado di traghettarci fuori da ogni procella anche con soluzioni autarchiche e con quel pizzico di fantasia e fortuna che, alla fine, ha sempre illuminato lo “Stellone” repubblicano?
In fondo, l’impressione è proprio questa. Al di là del molto agitarsi di vinti e vincitori e delle dichiarazioni roboanti e definitive per almeno cinque minuti, ancora una volta forse dovremo affidarci all’improvvisazione, all’arte di arrangiarsi ed a tutta la pletora di Madonne, Santi protettori e Beati che popolano l’immaginario della nostra salvazione. Dopodiché, esaurite orazioni e sortilegi, non ci resterà che richiamare, se ancora disponibili, le “riserve” migliori della Repubblica al capezzale di un Paese che, a quel punto, non saprà più chi è, cos’è e dove si dirige.
In questo quadro, anche il Trentino appare alla mercè della mutevole corrente del presente e pare faticare ancora molto nel marcare qualche segno di ciò che, in altre stagioni, fu una felice anomalia.
Insoddisfatta dalle politiche dell’annuncio che non esprimono livelli alti di visione e progetto; sempre ammaliata dalle sirene del contributo pubblico e dell’investimento “protetto” dall’ombrello finanziario di “mamma Provincia” e disattenta alle ragioni della propria storia e specialità, questa terra ha perso ormai alcuni dei suoi caratteri distintivi, peraltro acquistandone altri in un rapido processo di omologazione con i territori vicini e di cancellazione di ogni traccia di diversità identitaria. Su questo scenario, qualche scelta non adeguata, elitarismi inutili, convenienze commerciali di corta deriva ed il solito baule di fascinose promesse elettorali, con annesse improbabili difese d’ufficio dell’autonomia, hanno fatto il resto, archiviando anche qui ogni ultimo residuo del secolo XX.Fra un anno, un nuovo appuntamento elettorale locale ci dirà se, quanto e cosa si è capito della plurale lezione uscita da questo confronto elettorale. Ci dirà se si è compreso il superiore valore dell’unità sullo stanco settarismo dei “migliori”. Ci dirà se le retoriche della periferia abbandonata e del finto pauperismo valligiano la smetteranno di scandire l’agire del pubblico amministrare e se alla genuflessione di certe intelligenze potrà sostituirsi la coerenza di chi sta con la schiena diritta e sa dire “no!”.
Ci dirà se i megaconcerti sono parte di una strategia di governo o mero trastullo fanciullesco in ritardo sulla storia e, infine, se il Trentino vuole superare l’immobilismo dell’incompetenza oppure se, ancora una volta, “tutto cambierà per non cambiare”. Ai posteri l’ardua sentenza.