La grande fuga dei nazisti alla fine della seconda guerra mondiale e le complicità anche di casa nostra, in questa seconda parte del racconto di Renzo Fracalossi sulla “ratlinie, la via dei topi”.
La maggioranza dei profughi di guerra e dei fuggitivi varca il confine del Brennero illegalmente e basandosi sull’aiuto, spesso interessato, di alcuni gruppi organizzati di contrabbandieri tirolesi, che hanno il loro punto di ritrovo presso il laghetto del Brennero, in territorio austriaco.
Nel settembre del 1945, i Carabinieri di Bolzano riescono a mettere le mani su una di queste organizzazioni che ruota attorno all’equivoca figura di un viennese, Alfred Pasche, il quale lavora, in qualità di autista, per la Croce Rossa Internazionale, trasportando ogni giorno pacchi di generi di soccorso fra Innsbruck e Bolzano. Insieme a quei pacchi, viaggia però anche molta corrispondenza particolare e messaggi in codice che evitano così il controllo della censura militare alleata. Va da sé che, con la corrispondenza, i pacchi della C.R.I. e qualche merce di contrabbando, anche diversi individui riescano a passare, indisturbati, il confine. Ma è solo uno dei tanti sistemi.
Innsbruck è da sempre la prima tappa del viaggio di fuga ed il centro di raccolta dei profughi. Dalla città partono diversi itinerari che conducono a sentieri in quota, sia sui versanti del Brennero, sia da Nauders per oltrepassare il Resia, sia passando per la Zillertal e risalendo verso la cresta di confine per poi scendere in Valle Aurina e da lì a Brunico e Bolzano.
Le tariffe del contrabbando di fuggiaschi sono fisse. Nel caso degli ebrei, che cercano di arrivare clandestinamente nella Palestina posta sotto il mandato britannico, è necessario comporre un gruppo minimo di sei persone che debbono sostenere un costo forfettario pari a 4 mila scellini, mentre per i nazisti e per i loro accoliti, il costo è di mille scellini a persona.
Le autorità italiane sono spesso impotenti davanti all’enormità del flusso di profughi. Quando riescono a operare qualche arresto, il fermato viene espulso dal Paese poche ore dopo. Egli ritorna così in Austria o in Baviera, per riprendere i tentativi di attraversamento del confine.
Nel 1947 gli arrestati ed espulsi dall’Italia sono 8.315; l’anno seguente la cifra si riduce a 6.908 unità e, nel 1949, a sole 840 persone fermate nel tentativo di entrare nel nostro Paese. Ad un simile calo non corrisponde una contrazione anche dei profughi, il cui numero rimane sempre alto.
In questo contesto, soprattutto fra il 1945 e il 1947, la città di Merano diventa uno straordinario crocevia per tutti coloro che varcano i confini illegalmente, anche se, fra gli stessi fuggiaschi, esistono profonde differenze. Gli ebrei, ad esempio, sostenuti da alcune reti semi-occulte di assistenza ed avversate dagli inglesi, pernottano qualche giorno in città, dove vivono quasi nascosti. Restano in attesa, comunque, di essere trasferiti, nottetempo e con automezzi appositamente predisposti, a Milano, Genova, Trieste o Livorno, per poi imbarcarsi verso il Medioriente. Sono più di 200 mila gli ebrei che, in quel periodo, arrivano a Merano. In prevalenza polacchi e rumeni, sono giunti fin qui grazie alla “Bricha” – letteralmente “fuga” in lingua yiddish ed ebraica – che, fin dal 1944, struttura l’assistenza per coloro che scappano dall’est europeo. Dotati di falsi documenti italiani, gli ebrei fingono di essere prigionieri di guerra rimpatriati o lavoratori coatti che tornano in Italia.
Si mescolano a gruppi di italiani in rientro dalla Germania, superando così il controllo al confine, peraltro già blando, delle autorità italiane.
Ma, se ai “figli di Israele” servono questi sotterfugi e stratagemmi anche per eludere i problemi linguistici, ben diverso è il trattamento riservato per chi è di madrelingua tedesca.
“Provai un enorme stupore nel trovare in Italia villaggi e vallate abitati da tedeschi. Parlavano un dialetto aspro, ma potevo comunque comunicare senza alcun problema. Mi hanno ospitato, nutrito e vestito, senza mai chiedere nulla.” (Dalle memorie del soldato della Wehrmacht Karl Friedler di Breslau).
Come lui, tanti altri abbandonano la loro “Heimat”, ormai occupata dai sovietici o annessa alla nuova Polonia, per provare a ricominciare altrove una diversa esistenza, potendo contare sul cameratismo e la solidarietà di larga parte dei sudtirolesi. Ognuno offre ciò che può, senza fare scomode domande. È la traduzione pragmatica della “Bruderschaft” (fratellanza) tedesca, che non conosce ideologie, divise e bandiere, perché è su di essa che germoglia, da sempre, la pianta del “Volk” (popolo) e della sua unità. D’altronde, i sudtirolesi hanno conosciuto la difficoltà della persecuzione etnica inflitta a loro dal fascismo e non possono quindi che essere almeno solidali con coloro che si atteggiano a perseguitati dalla sorte e dall’incomprensione.
Questa però non è solo una storia di contrabbandieri. Molti funzionari pubblici austriaci ed italiani tedescofoni collaborano alla “grande fuga”. S i conoscono fra di loro, parlano la stessa lingua, hanno le medesime tradizioni, sono tutti tirolesi, al pari di contadini, artigiani e preti che agiscono con il viatico della Charitas di Roma, diretta, guarda caso, dal tedesco mons. Karl Bayer. Ogni classe sociale contribuisce, ove richiesto. Vestiario, soldi, ospitalità clandestina, documenti, testimonianze, supporto alimentare e quant’altro aiuta la fuga, diventano quotidianità per gran parte della popolazione sudtirolese.
D’altronde, praticare l’esercizio di quella fratellanza basata sulla comune appartenenza al ceppo germanico, non è solo un richiamo etnico, ma appunto una reazione concreta al duro ventennio fascista che ha cercato in ogni modo di “italianizzare” il gruppo etnico tedescofono. Ha tolto a quest’ultimo i riferimenti culturali e formativi; spinto l’emigrazione verso il III Reich con il dramma delle “Opzioni” e perseguito qualsiasi tentativo giudicato utile alla salvaguardia della radice tedesca della popolazione sudtirolese. Una sorta insomma di “pulizia etnica e culturale”, non esente da note di nazionalismo e di quell’antica avversione fra italiani e tedeschi che affonda le radici ancora nei moti risorgimentali e nelle “guerre d’indipendenza”.
Aiutare il tedesco in fuga, chiunque egli sia, diventa quasi “un atto di irredentismo”, una forma di riaffermazione identitaria e un dovere morale non privo di risvolti religiosi. Si tratta quindi di un processo sottile quanto diffuso e che produce una vasta gamma di conseguenze storiche e sociali, delle quali tutt’ora questa terra porta le stigmate.
2. continua – la prima puntata è stata messa online il 1. settembre 2022