Inoltrarsi fra le perdute lande del passato significa percorrere quasi sempre un sentiero carsico che viaggia spesso sepolto nelle profondità della dimenticanza e solo raramente emerge alla luce della storia. Camminare verso il futuro è possibile solo affrontando, anche con coraggio e consapevolezza, il passato. Si tratta di riconoscere meriti e responsabilità, in una continua ricerca, per quanto possibile, della verità. Se le retoriche turistiche e promozionali hanno promosso e tutt’ora esaltano i territori alpini, posti a meridione del passo del Brennero, come un’oasi di eterna felicità e serenità assoluta, ciò ha spinto, per contro, la memoria verso abissi di nebbia e di smemoratezza.
Le valli dell’Alto Adige/Südtirol e, seppur in parte minore, del Trentino, alla fine del secondo conflitto mondiale e per parecchi anni, sono state infatti un luogo ben diverso da quello delle cartoline promozionali. Villaggi, masi e vallate sono state la prima accoglienza solidale per criminali di guerra nazisti, per militari tedeschi in fuga, per viscerali anticomunisti, ma anche per ebrei sopravvissuti e in viaggio verso “Eretz Israel”, per apolidi in cerca di identità e ancoraggio e per individui posti, dalla guerra, ai margini della vita.
La geografia fisica e umana del dopoguerra favorisce, spesso condividendone l’ideologia o per mera convenienza economica, chi scappa dalla giustizia, chi ha un passato da nascondere, chi fugge dai propri crimini, nella certezza che quell’aiuto rimarrà comunque sepolto dall’omertà etnica, dalla condivisione politica e da un distorto senso dell’onore e così è stato per molti anni. Non solo Mengele ed Eichmann, ma anche migliaia di responsabili dell’orrore trovano qui aiuto e assistenza preziosa dopo aver varcato il Brennero. Fantasmi, spettri, avidità, cameratismo, nostalgia, odio e nazionalismo riescono a cucire, negli anni, un pesante velo di oblio su vicende individuali e collettive il cui peso grava anche sul nostro presente. Proveremo a raccontare queste storie, che sono, in parte, anche nostre, nella speranza che ricordare aiuti a non ripetere.
Fra il 1945 e il 1946, ben dodici milioni di persone di lingua, cultura ed etnia tedesca o tedescofona, migrano dall’est europeo verso l’ovest. La guerra è appena finita, con il suo strascico di dolore, lutti e spaesamenti ed una massa imponente di profughi e fuggitivi si riversa sulle dilaniate contrade del vecchio continente. Fra essi, centinaia di migliaia gli individui delle terre orientali che scappano davanti all’occupazione dei loro Paesi da parte dell’Armata Rossa. Si tratta, in genere, di anticomunisti, di ortodossi e cattolici, di piccoli proprietari e borghesi medi, ma anche militari, partigiani, collaborazionisti, poliziotti, guardie dei Campi di concentramento e spietati assassini e torturatori di ebrei e di avversari politici. Per tutti costoro l’occidente diventa anzitutto una salvezza e poi, se possibile, anche un trampolino per ulteriori migrazioni verso l’intero continente americano, dall’ Alaska alla Terra del Fuoco, dove seppellire il passato e cominciare una nuova vita.
È una fiume in piena che si riversa sulle martoriate strade della Germania e dell’Austria, increspato da mille onde. Tedeschi in fuga dalla Prussia, dal Warthegau polacco e dal Governatorato generale, ma anche, davanti ai sovietici, dai Land della Pomerania, del Brandeburgo, della Turingia e della Sassonia; ucraini, baltici e slavi germanofoni; nazisti e loro collaboratori di ogni specie, spie e traditori, ma anche ebrei in viaggio verso la Palestina. E poi ancora: militari che parlano ungherese, romeno, bulgaro, cèco boemo, croato e bosniaco e che si sono battuti ovunque, sotto la bandiera con la svastica, contro gli odiati bolscevichi, al pari di civili terrorizzati dal “mostro stalinista” e di persone che nulla hanno più da perdere.
È un esodo di proporzioni immani e che si dirige verso un imbuto geografico obbligato, almeno se si vogliono raggiungere gli ospitali porti italiani, da dove non è difficile imbarcarsi soprattutto per il Sudamerica. Nell’Italia devastata dalla guerra, in parte ancora soggetta agli Alleati e travolta dal caos non si va troppo per il sottile nel controllo dei documenti identificativi e dei titoli di viaggio: basta qualche conoscenza, qualche raccomandazione o qualche benedizione e gli ostacoli si superano agevolmente.
Quell’imbuto, dal quale però non si può prescindere, è il passo del Brennero e – seppur in misura minore – il passo del Resia. Dalle pendici si scende per imboccare tutte le possibili direzioni verso luoghi nevralgici e strategici, come Genova o Roma, ma anche Trieste e Livorno.
Non si tratta però di percorsi facilissimi. Americani e inglesi controllano le principali vie di comunicazione, mentre gli italiani verificano i passaggi secondari per valli e vallette alpine, nelle quali molti fuggiaschi trovano inattese solidarietà ed assistenze, soprattutto in nome della comune radice identitaria tedesca.
L’antica “Venezia Tridentina”, che ricomprende anche l’Alto Adige/Südtirol è, nei primi mesi del dopoguerra, ancora priva di un definito “status” politico. Si tratta di un terreno ideale per trovare rifugi sicuri, nei quali attendere nuovi – ed ovviamente falsi – documenti di identità e di viaggio, indispensabili però per proseguire la fuga, grazie all’assistenza quotidiana e concreta di preti, frati, dipendenti pubblici, albergatori e contadini di queste valli.
Nel volgere di poche settimane, le terre a sud delle Alpi centrali diventano il nascondiglio per eccellenza, il luogo del transito sicuro, la geografia compiacente e complice. Ma non solo.
L’ Alto Adige/Südtirol e in parte anche il Trentino pullulano di nazisti e di fascisti repubblichini, in ritirata verso l’“Alpenfestung” i primi e la “Ridotta Alpina” i secondi, travolti dal “crepuscolo degli dèi” e spaventati davanti alle possibili conseguenze delle loro azioni. Ma perché tutti qui?
L’insieme dei due versanti alpini centrali, fino alla pianura padana da un lato e alle montagne bavaresi dall’altro, da tempo è stato individuato, a Berlino come a Salò, quale area idonea a divenire “l’ultima trincea”, una sorta di “ultima Thüle” dove resistere e morire eroicamente, in nome del Führer e del Duce.
Proprio per questo, Himmler decide di costituire, già nell’autunno del 1944, reparti speciali di sabotatori e di guerriglieri da scatenare dietro le linee nemiche, anche dopo una eventuale resa. Si tratta dei “Wehrwolfen” – i “Lupi mannari” – che vengono suddivisi in due specifiche Sezioni, con compiti diversi: la “Sektion West” (Ovest) agli ordini del generale delle SS Hans Prützmann e la “Sektion Öst” (Est) diretta dal generale delle SS Reinhard Gehlen, detto “Volpe grigia”.
Dotati di falsi documenti prodotti per tempo dalla Gestapo, i “Wehrwolf” della “Sezione Ovest” agiscono soprattutto in Tirolo e in Baviera, mescolandosi alla popolazione e ai profughi in fuga e compiendo attentati ed omicidi mirati, contro ufficiali ed obiettivi rilevanti delle truppe inglesi ed americane, ma anche contro qualsiasi forma di collaborazione tedesca con gli Alleati. Gli esiti di tali azioni sono talmente pericolosi da indurre gli americani a emanare un ordine di fucilazione immediata – e senza alcun procedimento – per ogni “Wehrwolf” catturato.
Nel settore orientale, invece, i “Wehrwolf” vengono addestrati anzitutto alla creazione e gestione di reti di spionaggio e di controinformazione, grazie alla professionalità del loro comandante, il gen. Gehlen, già capo del “Fremde Heere Ost”, ovvero il “Reparto Informazioni” per l’Est del Comando supremo tedesco.

Sono reti efficientissime, perché mosse da idealità profondamente anticomuniste e capaci di durare negli anni, addirittura fino alla “guerra fredda”, fornendo informazioni preziosissime, sia alla C.I.A. come all’ M.I.6 inglese. Al punto che, per i suoi alti meriti, nel 1956, l’ex generale SS Reinhard Gehlen viene nominato direttore del “Bundesnachrichtendienst”, il Servizio Informazioni federale della Germania Ovest.
Accanto ai “Wehrwolf”, e fra le montagne di tutto il Tirolo, agiscono anche altre formazioni di resistenza nazista come gli “Edelweisspiraten” (Pirati della stella alpina), composti da ex membri fanatici della “Hitlerjügend” (Gioventù hitleriana) e delle S.S., che agiscono prevalentemente contro gli sfollati polacchi e boemi, i sopravvissuti ebrei e le donne tedesche colpevoli di fraternizzare con i soldati nemici, specialmente se di colore.
Non proprio un esercito, ma comunque un numero consistente di irriducibili che stentano a comprendere la fine della guerra e quanto ormai ogni resistenza sia vana. Quando, infine, si rendono conto della realtà non hanno alternative: devono fuggire e dove, se non verso il Brennero, con destinazione il Sudamerica. Ma scappare e nascondersi non è semplice. Ci sono delle condizioni minime da osservare, perché la caccia agli ex nazisti e fascisti di ogni provenienza è ancora aperta.
Serve anzitutto un documento di identità, per ottenere i relativi visti di viaggio, rilasciati dai Consolati dei Paesi verso i quali si vuole espatriare e soprattutto dal Comitato Internazionale della Croce Rossa che, per “ragioni umanitarie”, si assume l’onere del rilascio di documenti provvisori, aventi riconosciuto valore internazionale e decisamente facili alla contraffazione. L’istanza per ottenere tali documenti non è complessa. Basta dichiararsi “apolidi”, oppure affermare di provenire da città rase al suolo e dove non è più possibile compiere alcuna ricerca anagrafica. Certo, non basta dichiarare autonomamente. Ci vuole qualche garanzia, qualche appoggio, qualcuno che sia garante e chi meglio di sacerdoti, frati e pubblici funzionari?
Ma per arrivare a questo punto di svolta nella fuga, bisogna superare il confine del Brennero e per farlo servono fondi o condivisioni. Ciò che conta è insomma la tariffa degli “spalloni”: soldi, beni preziosi e quant’altro possa avere mercato rapido e privo di tracciabilità. Spesso però basta la sola condivisione ideale, il cameratismo, l’appartenenza alla medesima etnia tedesca e la dichiarata lotta al bolscevismo.
Varcato, di notte, il Brennero, una rete di assistenza – dapprima incerta e volontaristica e poi via via sempre più organizzata e poggiata, in larga misura, sulle larghe spalle delle parrocchie della diocesi sudtirolese – si incarica di accogliere, nascondere ed ospitare coloro che cercano di raggiungere i porti del Tirreno per l’agognato imbarco verso la salvezza sudamericana.
È la storia di questi personaggi e delle complicità che li proteggono e li aiutano che proveremo a raccontare, seguendo quella “Ratlinie” (La via dei topi) che ha consentito a migliaia di criminali di guerra e di assassini nazisti e fascisti di varie nazionalità di sparire per sempre nelle “fazende” brasiliane, nei latifondi uruguayani o in accoglienti paesini della montagna argentina, come San Carlos de Bariloche, che tanto somigliano agli chalet della lontana patria germanica. In quei luoghi così carichi di nostalgia, si può vivere bene e soprattutto sottrarsi alla giustizia degli uomini. Norimberga non è fatta per i Priebke, gli Eichmann, gli Stangl, i Barbie ed i Mengele. Loro hanno varcato il Brennero; hanno vissuto nei masi di alta montagna con la paura di essere denunciati; hanno dovuto prestarsi a mille bugie per fuggire. Adesso chiedono solo l’oblio e una ritrovata serenità, nell’altro emisfero del mondo.
(1-continua)