“Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur”. Così Tito Livio, studiato al liceo classico, rammentava il disperato tentativo di smuovere il soccorso di Roma da parte degli ambasciatori di Sagunto, città spagnola assediata dal generale cartaginese Annibale Barca nel 219 a. C. Sagunto resistette otto mesi senza che Roma intervenisse, poi fu rasa al suolo. La metafora è di attualità, oggi, estate del 2022, mentre a Roma i partiti e i movimenti politici si azzuffano, si azzannano, menano fendenti per una campagna elettorale divisiva e che lascerà sul campo lacerazioni, ferite, distinguo e maldestre giustificazioni. In fondo si ripete ciò che l’Italia ha già visto giusto un secolo fa. In una situazione di crisi profonda (delle Istituzioni e delle comunità) il ricorso salvifico all’uomo (o alla donna) forte diventa un miraggio affascinante. Il canto delle sirene (meno tasse, mille euro alle casalinghe, blocco dell’immigrazione) gonfia le vele della destra e trova alimento tra i nostalgici del qualunquismo. Tutto si lega e molto si slega. Per non dimenticare, Renzo Fracalossi ripropone per i nostri quattro lettori un “ripassino” di storia. Perché non diventi cronaca.
Agosto 1922. Cento anni fa. Mussolini, in un incontro di partito, esorta i suoi all’offensiva in Alto Adige. Già prima di quell’estate – il 24 aprile 1921 – le camicie nere hanno effettuato un assalto su Bolzano. Piombati d’improvviso nel mezzo di un pacifico corteo folkloristico, hanno ucciso il maestro Franz Innerhofer e hanno ferito più di cinquanta persone a colpi di pistola e manganello.
Mussolini approva quell’aggressione e se ne assume la responsabilità politica, spostando così il baricentro della lotta politica dal piano dello scontro di classe alla questione nazionalista, della quale il fascismo si fa carico nella sua veste di patrono indiscusso del vero patriottismo.
I preparativi, avviati in agosto, durano qualche settimana e finalmente, nella notte del 30 settembre, la direzione militare fascista, affidata a Francesco Giunta, Alberto De Stefani e l’immancabile Achille Starace, porta nella città sul Talvera un migliaio di squadristi. Viene immediatamente occupata l’“Elisabethschule”, frequentata da oltre settecento studenti di etnia tedesca e da meno di duecento di lingua italiana ed i fascisti impongono, seduta stante, il cambio della titolazione dell’istituto scolastico che diventa così “Scuola Regina Elena”.
Come già occorso altrove, le forze dell’ordine rimangono immobili spettatrici. Senza colpo ferire, i fascisti occupano quindi il Municipio di Bolzano e impongono al Consiglio comunale lo scioglimento della “Guardia civica”, cioè il modesto Corpo di Polizia locale. Il 3 ottobre, il quotidiano di Mussolini – “Il Popolo d’Italia” – apre la prima pagina con un titolo altisonante: “Lo Stato fascista in funzione. L’assalto al Municipio. La resa dei pangermanisti di Bolzano”. Contestualmente, il governo, presieduto dal debole ed incerto Luigi Facta, revoca il sindaco Julius Perathoner, regolarmente eletto nel gennaio precedente. Anche il “Corriere della Sera” sostiene l’azzardo fascista di Bolzano e riconosce agli squadristi di aver rotto “gli indugi e regolato a modo loro le questioni che si accendono a Bolzano, con un plauso per la rimozione del tracotante sindaco pangermanista”.
Julius Perathoner è tutt’altro che un “tracotante pangermanista”. Si tratta di un uomo politico di lungo corso, nato a Brunico nel 1849. Entra in Consiglio comunale a Bolzano nel 1893 e dal 1895 al 1922 è Sindaco della città, l’ultimo di lingua tedesca. Avvocato, intellettuale e uomo delle Istituzioni, diventa anche parlamentare austroungarico dal 1901 al 1911 e si impegna sempre per la modernizzazione e la separazione netta fra Stato e Chiesa. Con lo scoppio della guerra (1914) compie ogni possibile sforzo per tutelare la minoranza italiana di Bolzano. Nella sua lunga carriera, porta la città al passo con i nuovi tempi: rivitalizza l’economia urbana, promuove e realizza grandi opere pubbliche e fa costruire la cremagliera del Renon e la funicolare del Virgolo, la prima al mondo per il trasporto di persone.
Con l’arrivo degli italiani, Perathoner rimane sindaco e coglie subito i pericoli del nazionalismo del vincitore, a fronte dei quali egli adotta scelte, anche dirompenti, a tutela della popolazione della cultura tedesca.
Esce di scena, indirizzando un messaggio di grande dignità al Consiglio comunale: “Se le apparenze non ingannano, la popolazione tedesca di Bolzano va incontro a tempi assai oscuri. Gli attacchi, non solo dei partiti nazionalisti, ma anche del governo contro i nostri interessi culturali, la nostra autonomia e l’uso della lingua tedesca aumentano sistematicamente di mese in mese. Le tante promesse e assicurazioni che ci sono state fatte, dopo la conclusione della pace, circa la tutela della nostra etnia, oggi sembrano dimenticate. Vorrei pregare i nostri concittadini tedeschi di non perdere il coraggio e conservare la fiducia in un futuro migliore!”
Tolto di mezzo Perathoner – che muore nel 1926, offeso anche con l’italianizzazione della sua identità trasformata in Giulio Pierantoni – e ridotto al silenzio, con la paura e la violenza, il pensiero sudtirolese, i fascisti piegano Bolzano e volgono adesso gli sguardi su Trento che va, anch’essa, “normalizzata”.

A Trento, per una pluralità di ragioni, il fascismo ha sempre fatto molta fatica ad attecchire. Sconfitto alle elezioni politiche del maggio 1921 e alle successive elezioni amministrative del gennaio 1922, il fascismo si è affidato ad Achille Starace, un capitano degli “Arditi” in congedo, che già si è distinto per l’organizzazione del movimento nella città di Cesare Battisti, pur senza ottenere il consenso dei trentini, almeno usando le sole armi del confronto politico.
A Trento ci sono più di duemila militari ed oltre quattrocento fra Carabinieri e agenti della Pubblica Sicurezza. Per volere del gen. Giovanni Ghersi, comandante militare della città, che non ha mai nascosto le sue forti simpatie fasciste, questa imponente forza rimane muta spettatrice degli accadimenti. Muta ed impotente, posto che l’ordine è di tenere le armi scariche e, “se assaliti” di “rispondere solo con la forza muscolare”.
In quelle ore, Francesco Giunta scrive a Roberto Farinacci: “Abbiamo occupato Bolzano, come saprai. Adesso tocca a Trento, perché bisogna definire una buona volta la situazione quassù. Basta che Tu possa marciare con trecento uomini sulla città e troverai disposizioni per tutto e nessun problema. Bisogna passare a qualunque costo!”
La notte del 4 ottobre, arrivano a Trento le camicie nere cremonesi di Farinacci. Il palazzo del Governo viene circondato, allo scopo di cacciare l’on. Luigi Credaro, Commissario civile per la Venezia Tridentina, accusato dai fascisti di “scarsa italianità”. Anche in questo caso il governo Facta scarica Credaro, come già fatto a Bolzano con Perathoner. Lo convoca a Roma per consultazioni e, in quella circostanza, lo rimuove dall’incarico. In città, nel frattempo, i fascisti pretendono – ed ottengono – le dimissioni dell’intera Amministrazione provinciale che viene occupata dalle camicie nere.
Si compie così, con l’avallo governativo, la distruzione delle residue autonomie locali, radicate nella tradizione asburgica e qui riconosciute, da sempre, come il vero punto di riferimento istituzionale. Ma non basta. I riusciti tentativi fascisti su Bolzano e Trento sono solo l’anticamera, o forse la prova generale, di ciò che va a maturazione qualche settimana dopo e cioè quella “marcia su Roma” del 28 ottobre 1922 che decreta l’avvento della dittatura fascista in Italia.
Quella marcia non è un avvenimento a sé stante, bensì il culmine di una strategia di lunga deriva, avviata fin dall’autunno del 1920 e imperniata sulla mobilitazione fascista nelle periferie del Paese, con l’obiettivo di distruggere gli avversari politici e di occupare progressivamente le città, scardinando in tal modo le rappresentanze democratiche nei Comuni e nelle Province del regno ed eliminando via via ogni residua presenza politica della Sinistra italiana. Rispetto a quella strategia, la mutazione introdotta con la “marcia su Roma” non identifica più il nemico nel “bolscevismo”, ma piuttosto nello Stato liberale, decadente e fragile, responsabile della “vittoria mutilata” e della crisi conseguente alla difficile riconversione dell’economia bellica. Uno Stato che va cancellato e sostituito con la forza e l’autoritarismo prima e il regime poi, del fascismo.
Le conseguenze della “marcia su Roma”, anticipate da quelle su Bolzano e Trento, progettate nell’agosto di un secolo fa, sono enormi e costituiscono la pietra angolare sulla quale vanno a poggiare i vent’anni che seguono e che preparano la disfatta del Paese.