Aveva solo 18 mesi ed è morta di inedia, abbandonata per sei giorni dalla donna (parlare di mamma pare fuori luogo) che l’aveva messa al mondo. È accaduto negli ultimi giorni di luglio del 2022 in Lombardia. La tragica fine della piccola Diana ha suscitato orrore e sconcerto ed ha richiamato un episodio che più di quarant’anni fa sconcertò ed angosciò la comunità non solo trentina.
Il 29 giugno 1978 era una giornata afosa. A Commezzadura, in val di Sole, un ragazzo notò il fagotto abbandonato sul ripiano di un capitello, all’esterno del cimitero. Se ne accorse perché c’era nell’aria un odore dolciastro, come di carne marcita. Vincendo il ribrezzo, il ragazzo si avvicinò e vide che dalla piega di un plaid lercio e consunto usciva un biglietto. “Polvere. Spirito allo Spirito. Seppellitemi voi. Fate un atto di carità. Si chiama Figlia di Dio”.
Nell’involto, il corpicino di una bimba in avanzato stato di decomposizione. L’autopsia stabilì che la piccola, di circa cinque anni, era morta strangolata. Sul cadaverino c’erano pure ematomi da percosse e i segni della denutrizione. Sulla scorta di successive indagini di anatomia patologica il perito stabilì che la bambina doveva essere morta tre settimane prima. Sull’identità della piccola, dell’assassino o degli assassini, tuttavia, nessuna traccia.
In quei giorni l’Italia era ancora sconvolta dall’epilogo del rapimento dell’on. Aldo Moro, trovato ucciso il 9 maggio 1978 nel bagagliaio di un Renault. Il 16 marzo, in via Fani, a Roma le BR (Brigate Rosse) avevano trucidato i cinque poliziotti di scorta del presidente della DC. Il 15 giugno, travolto da accuse poi rivelatesi infondate (lo scandalo Lockheed), si era dimesso il presidente della Repubblica, l’avv. Giovanni Leone. E proprio il 29 giugno, a Camere riunite, erano cominciate a Roma le votazioni per designare il nuovo Capo dello Stato: l’avv. Sandro Pertini, eletto l’8 luglio.
Il “giallo di Commezzadura” tenne la prima pagina dei giornali per poco, poi scivolò fra le “brevi” dei casi irrisolti. La svolta si ebbe di lì a qualche mese. Casuale e inattesa.
Mercoledì 11 ottobre 1978, valico di Ventimiglia. Alla frontiera fra Italia e Francia si presentarono in tre: Cesare Patané, di 33 anni; sua moglie Margherita Scalvi, di 28 anni, e il fratello Mariano Patané. Erano di Bedizzole, in provincia di Brescia. La coppia riuscì a superare il confine mentre Mariano, che aveva la carta di identità scaduta, fu trattenuto per accertamenti.
Raggiunta Nizza, i coniugi Patané si appartarono sulla spiaggia, lungo la “promenade des Anglais” e si tagliarono le vene. Il maldestro tentato suicidio non riuscì. Furono ricoverati d’urgenza all’ospedale Pasteur. Nella notte, elusa la sorveglianza, forzarono un armadietto di medicinali e disinfettanti. Preparato un intruglio si ingozzarono. Margherita morì, Cesare riuscì nuovamente a sopravvivere.
L’episodio, segnalato alla polizia italiana, finì sulla scrivania dei carabinieri di Bedizzole, comune di 13 mila abitanti in prossimità del lago di Garda. Un giro di telefonate, qualche testimonianza, chiarirono che i due avevano una figlia di 5 anni della quale in paese non c’era traccia. Interrogato dagli investigatori francesi, Cesare negò di avere mai avuto una figlia per poi esplodere in una delirante crisi isterica.
Incrociando le frasi smozzicate dell’uomo con le dichiarazioni del fratello, Mariano, si delinearono i contorni del giallo. Cesare, Margherita e Mariano, assieme alla piccola Desiré avevano lasciato Bedizzole con un furgone la mattina del 4 giugno 1978. Da qualche tempo avevano formato una setta detta “della fratellanza cosmica e della purezza infinita”. Si riferivano a un certo Eugenio Siragusa da Catania che dichiarava contatti con gli extraterrestri. Credevano che si potesse raggiungere un’esistenza paradisiaca con la morte del corpo purificato dal digiuno e la successiva reincarnazione.
Scrisse il cronista del giornale “Alto Adige” (5 dicembre 1978): “Di fronte ai carabinieri sempre più allibiti, all’avvocato sempre più perplesso, l’uomo (Mariano Patané) ha parlato con scioltezza e proprietà di linguaggio. Ha detto che la bambina è morta a San Michele di Salò e che negli ultimi giorni di vita veniva spinta fuori dalla tenda nella quale quella comunità aveva eletto il proprio precario domicilio. Veniva spinta fuori dalla tenda e costretta a camminare, oppure a stare a lungo in piedi, oppure a trascinarsi carponi in modo che si sfinisse. Non le davano da mangiare, non le davano da bere”.
Morta il 5 giugno 1978, la piccola Desiré fu tenuta nel furgone fino al 27 giugno “nella folle convinzione che potesse risorgere”. Cospargevano il cadavere con il deodorante finché, impossibilitati a proseguire per l’odore da putrefazione, i tre avevano abbandonato il corpicino fuori dal cimitero di Commezzadura.
Dalla Val di Sole i tre folli erano approdati sul monte Bondone dove avevano messo in atto un primo tentativo di suicidio. Avevano girovagato per l’alta Italia, fino all’approdo, nel mese di ottobre, al confine con la Francia.Identificata la piccola Desiré, la magistratura fece arrestare lo zio Mariano, imputandolo di concorso in omicidio volontario. Quest’ultimo fu trovato morto impiccato, in carcere, il 5 febbraio 1979. Suo fratello Cesare, papà di Desiré, si tolse la vita allo stesso modo, il 23 giugno successivo, nell’ospedale psichiatrico giudiziario dove era ricoverato.