Il 21 luglio a Roma si conclude il festival “Letterature” ed in quella circostanza è previsto un intervento di Antonio Scurati, intellettuale attento e sensibile nonché affermato romanziere ed autore di due recenti volumi sul duce che hanno riscosso grande successo e che, forse, possono risultare di qualche interesse, se non altro per il portato politico, storico e morale che dentro quelle pagine lievita.
“M. Il figlio del secolo” (Ed. Bompiani – Premio Strega 2019 – pp. 848 – euro 24) e “M. L’uomo della provvidenza” (Ed. Bompiani – pp. 656 – euro 23), in attesa degli altri due volumi/capitoli, rappresentano l’avvio di un grande progetto editoriale che si muove fra realtà (molta) e romanzo (poco) per disegnare un ritratto complesso ed oltremodo interessante di Benito Mussolini e del suo tempo e forsanche per dire del nostro e delle sue inclinazioni.
Leggere il pur ponderoso lavoro di Scurati consente, per l’agilità della scrittura e la scorrevolezza della narrazione, di cogliere i termini di una puntuale ricerca storica, ma anche il piacere di una “bella lettura”, capace di raccontare un’epoca, i suoi personaggi, avvenimenti noti e di fantasia e quel clima sociale entusiastico che accompagna ogni fase del regime, ricordando così al lettore anche quanto l’impronta della fascinazione fascista di allora stia tornando prepotentemente ad incidere il nostro quotidiano.
Dalle pagine di Scurati emerge, con straordinaria chiarezza, come le dittature del XX secolo – quella fascista come quella nazista e stalinista – rappresentano senza dubbio la più tragica e orribile tappa della storia contemporanea europea e mondiale, ma anche l’eccezionale capacità di coinvolgimento delle masse, in un processo di identificazione generale del singolo con il regime che lo governa e lo sfrutta. Ce ne aveva già parlato, in modo scientifico ed approfondito, George Mosse (1918 -1999) – il celebre storico tedesco di origini ebraiche e naturalizzato americano – con il suo potente testo “La nazionalizzazione delle masse” (Ed. Il Mulino 2009 – pp. 311 – euro 15), ma Scurati ha il pregio di rendere molto più potabile per chiunque la riflessione attorno all’adesione convinta ed entusiastica dell’italiano medio al fascismo, alla sua retorica facile e bugiarda, al suo comodo conformismo, ai suoi sogni di gloria di cartapesta, alla delega delle responsabilità singole e collettive ed alle ondivaghe inclinazioni di quel suo duce che fatica a collocare l’Italia nello scenario internazionale.
Nella scrittura di Scurati però non c’è dileggio o disprezzo, pur evidenziando la distanza siderale dell’autore da ogni fascismo, né tanto meno nostalgia, rancore o simpatia, mentre aleggia invece l’amaro riconoscimento del venire meno della sentenza che la storia ha emesso sul regime e la sua malata ideologia, in un processo che può favorire ritorni ideologici e comportamentali nel nostro presente e dentro un “Paese spaesato” ed afflitto da una dilagante paura del futuro.
Vecchi slogan, antichi emblemi, saluti romani, nuovi richiami alla razza ed alla scadente retorica dell’“uomo forte”, ma anche assalti squadristi come quello recente alla sede nazionale della C.G.I.L. ritornano così a galla, nel trionfo becero e ignorante di una diffusa miseria intellettuale, ma anche nella palese assenza di una qualsiasi moto di indignazione collettiva, di “resistenza”, di rifiuto della deriva in atto. In nome di un errato “politically correct” che impedisce con un finto “bon ton” di dire “pane al pane e vino al vino”, pochi, anzi pochissimi indicano il rischio dell’avvento di ciò che è stato e che speravamo di non rivedere più.
Certo, la commovente ostinazione di Liliana Segre, di Sami Modiano e degli ultimi Testimoni della Shoah; la memoria ancora viva negli ormai pochi “sopravvissuti” alla guerra ed ai suoi orrori; gli studi di storici ed intellettuali coraggiosi, come Scurati, Francesco Filippi e Paolo Berlizzi; l’impegno di alcune minoranze di giovani e l’antico orgoglio antifascista di militanze ormai ultrasessantenni rimangono sul fondale del presente, ma non costituiscono più quell’invalicabile baluardo di democrazia che si è, fin qui, opposto all’incalzare crescente del revisionismo storico più arrogante e della nostalgia più esibita ed attraente.
Antonio Scurati con i suoi “romanzi/non-romanzi” ci invita invece a riprendere il dovere morale e civile di ricordare, di conoscere, di riflettere e di raccontare. L’inettitudine di una scuola che ha abdicato al suo ruolo formatore della coscienza democratica; l’abbandono delle periferie e delle loro difficoltà sociali private di una loro interpretazione politica non populista; la mancanza di una seria rielaborazione collettiva della memoria nazionale e la costante tendenza, tutta italica, di adeguarsi al “mutar dell’utile” hanno favorito, soprattutto in quest’ultimo ventennio, la perdita del senso profondo dell’antifascismo e del suo significato di collante della Repubblica e della stessa democrazia che la regge. Non è nuovo, in Italia, l’ossequio complice e solo proteso al mantenimento intatto delle proprie convenienze, orientando così il pensiero e la didattica al vento politico del momento. Si tratta di un arte antica e che si rinnova ad ogni cambio di governo, come ci insegna l’esempio tragico delle leggi razziali del 1938 alle quali, tranne qualche “rara avis”, si uniforma subito tutta la nazione: chi per convinzione (pochi), chi per convenienza (parecchi) e chi per indifferenza (moltissimi), salvo poi dimenticarsene completamente a guerra conclusa, al pari dell’orbace, della divisa da “balilla” o da “giovane italiana” e dell’entusiasmo collettivo per la proclamazione dell’impero.
Scurati ha il pregio di ricordarci la storicizzazione di quest’attitudine, attraverso pagine intense, anche per dire dell’incombente pericolo, non tanto di un ritrovato folklore del “santo manganello”, quanto piuttosto di un clima e di un pensiero che si adagiano, che non vogliono impegnarsi, che si chiudono in tristi egoismi, che vivono nel rimpianto del “bel tempo andato”, che si rifanno al cattolicesimo intransigente e dogmatico e che vivono di vecchie e nuove propagande demagogiche.
Certo, il “Papète” non è e non sarà, per fortuna, piazza San Sepolcro. Certo che il primo ventennio del Novecento non è il primo ventennio del terzo millennio e che anche le stature politiche paiono imparagonabili, ma non va dimenticata mai la capacità delle similitudini di fagocitare, se non frenate, le differenze e quindi di ripetere ossessivamente il passato.
Ecco a cosa servono, in questa rovente estate, le pagine di Antonio Scurati. Buona lettura.