Le vacanze, se sono intelligenti, servono a far riposare il corpo e a mettere in funzione il cervello. A spalancare gli occhi per lo stupore di un’Italia bella, ricca d’arte e di sapori o a strabuzzarli per l’orrore e la rabbia di fronte agli squarci e alle cicatrici che non smettono mai di sanguinare. Soprattutto quelle causate dal terremoto del 30 ottobre 2016, magnitudo 6.5, che devastò Norcia e causò lesioni in numerosi centri dell’Italia centrale. Reduce da un viaggio tra l’Umbria e la Toscana, Renzo Fracalossi condivide con i lettori de iltrentinonuovo.it le sue riflessioni amare sull’Italia della malora.
Norcia, giugno 2022 – La serata è calda e il cielo terso. Forse straordinariamente calda per queste finali giornate di giugno. Da una finestra scivolano sulla strada silente le note del “Chiar di luna” che mai come qui paiono dedicate a quel “pallone giallo e pacioccone” che sovrasta questo lembo di colline e di uliveti. Un quadro estivo perfetto, che ricorda la siepe leopardiana o il meriggio montaliano. Peccato solo per quei ruderi che si susseguono all’improvviso; che rimangono in piedi, orgogliosamente, solo perché puntellati d’amor proprio e soprattutto da travi e putrelle; che occupano ancora viuzze e viottoli chiusi da una rete e da un angosciante avviso di interdizione: “Zona Rossa”.
È in questo panorama di composte rovine che la vita non smette di affacciarsi all’uscio di qualche vecchio portale di pietra, miracolosamente rimasto illeso, nell’antica città che fu di San Benedetto: Norcia.
Adagiata dalla mano divina nel cuore dell’Umbria, sotto le pendici brulle dei Sibillini, questo prezioso scrigno di un Evo Medio rimasto qui sospeso nei secoli, è ancora – e dopo duemilacentonovanta giorni – un agglomerato di rovine e di container; è ancora una mescolanza di impotenza e di volontà di ripresa; è ancora un luogo che, ad ogni angolo, diventa un “non-luogo” irto di tubi-dalmine, di armature e di tiranti.
Questa è oggi Norcia, dove appare evidente, se mai servisse, il ritardo e l’incuria di uno Stato smemorato e dimentico di quelle orribili, lunghe e mortali scosse telluriche che in trenta secondi circa hanno devastato quest’incredibile angolo di “intatto”, fra l’agosto e l’ottobre del 2016.
Già, “nihil novo sub solem” (niente di nuovo sotto il sole). Norcia, con i suoi ruderi, le sue macerie, i suoi lavori avviati e mai completati, ma anche con la quotidiana forza sorridente dei suoi cittadini protesi a guardare avanti, a rimboccarsi le maniche è una sorta di specchio di questo strano Paese che potrebbe e dovrebbe essere fra i più belli del nostro inquinato e sofferente pianeta, mentre risulta essere, ancora una volta, la “patria” per eccellenza dell’inefficienza, dell’improvvisazione, della retorica populista e quindi, tutto sommato, del disprezzo dei suoi abitanti per sé stessi e per i propri concittadini.
Norcia è il silenzio colpevole. Norcia è la promessa mancata. Norcia è la vacuità delle parole. Norcia è l’ennesima resa dello Stato, ma è anche l’attaccamento identitario dei suoi abitanti, capaci di ospitarti in un nuovissimo “bed and breakfast” posto accanto alla Porta occidentale delle antiche mura, per offrirti poi la colazione , compresa nel prezzo della camera, in un improvvisato “Frühstucksraum” a Porta orientale, cioè al lato opposto della città, pur di lavorare, di ricostruire, di ripartire, con o senza il P.N.R.R. Norcia è la gentilezza discreta e l’operosità orgogliosa dei suoi commercianti e ristoratori che, nonostante tutto, non lesinano mai la generosità di un sorriso. Norcia è una frattura della storia, ma Norcia è soprattutto… l’Italia.
Dilaniata fra la rabbia per l’assenza di ogni minima coerenza e responsabilità e la voglia di essere protagonista del proprio esistere presente e futuro, Norcia, come l’Italia, non attende i miracoli mille volte promessi “alle famiglie e alle imprese italiane”. Norcia vive di sé e per sé, guardando oltre i confini dell’immediato ed affidandosi al lavoro di tutti, compresi i ragazzini che, finita la scuola e come s’usava un tempo anche fra le nostre valli, contribuiscono all’azienda familiare. Sparecchiano tavoli improvvisati dove turisti stranieri, spesso distratti e vittime consapevoli del crimine alimentare del “burger”, consumano le norcinerie, forse non gustando appieno tutte le sfumature di quei sapori che vengono dai secoli e dall’esperienza contadina e dicono di Norcia e dell’Italia intera.
Norcia siamo noi. Siamo noi con le nostre speranze e le nostre disillusioni; con la fede mescolata al disincanto e con quell’eterna ed unica “arte d’arrangiarsi” che è cifra distintiva di questo improbabile e meraviglioso “stivale” italico, abitato da cicale e formiche e dove alcuni veri galantuomini si assumono quelle responsabilità difficili, che i mestatori nel torbido, gli improvvisatori della pace universale e i “capitani” da spiaggia delegano volentieri, mentre il popolo prima plaude e poi critica e sbeffeggia.
Norcia siamo noi, anche se fingiamo di non accorgercene. Mura pericolanti, puntelli e travi per mantenere immobile quel “precario” continuo che ci affligge da sempre e ci ricorda il nostro destino di grandezza e miseria che già Dante così riassumeva: “Ahi serva Italia, di dolore ostello,/ nave senza nocchiere in gran tempesta/ non donna di province, ma di bordello” (Purgatorio – Canto VI – vv. 76 – 78).