È andato in scena lo scaricabarile nella seduta straordinaria del Consiglio Provinciale di Trento, convocato nel pomeriggio del 19 luglio 2021 (anniversario “dimenticato” del disastro di Stava) su istanza delle minoranze (PD in primis) per discutere su quella che le opposizioni definiscono “una pessima gestione della sanità trentina”. Avviata dopo la sconcertante vicenda della ginecologa Sara Pedri, scomparsa il 4 marzo scorso (la sua vettura è stata trovata nei pressi del ponte di Mostizzolo, in val di Non), la seduta avrebbe dovuto far luce sui mali della sanità. È servita solo alle opposizioni per accusare la “pessima gestione della Giunta Fugatti” e alla maggioranza di fare quadrato attorno all’esecutivo. La quale ha rinviato le accuse al mittente con l’ovvia quanto bambinesca considerazione che lo sfascio, se di questo si tratta, è stato ereditato da precedenti gestioni. E dunque da chi oggi siede sui banchi dell’opposizione.
Ogni cambio di maggioranza eredita onori e oneri. Chi si candida per governare sa bene, o dovrebbe saperlo, che intende scalzare i predecessori per cambiare (in meglio) le situazioni e le criticità. Se non lo fa o non lo ha fatto nei due anni e mezzo di nuova gestione è colpevole al pari e forse più dei predecessori. Fatta salva la vicenda del reparto di ostetricia e ginecologia della quale si occuperà probabilmente la magistratura ordinaria (oltre agli organismi deontologici delle categorie interessate), i mali della sanità, anche trentina, hanno radici antiche. Affondano nella trasformazione delle USL (Unità sanitarie locali) in Azienda Sanitaria.
Quindici anni fa, a un corso di management per primari ospedalieri, un professore dell’Università Bocconi di Milano disse chiaro a tondo che un’azienda, per non fallire, doveva curare soprattutto il benessere dei dipendenti. Dipendenti e collaboratori insoddisfatti o, peggio, costantemente “cazziati”, portano un’azienda diritta verso il baratro. Nel privato, i dirigenti incapaci di gestire il personale sono licenziati su due piedi. Nel pubblico, talvolta, vengono promossi. Chi paga pegno è sempre qualcun altro.
Se fosse un’azienda come quelle del mercato privato, la sanità trentina sarebbe fallita da un pezzo. E non solo per le vicende che in queste settimane ruotano attorno ai disagi del personale di ostetricia del “Santa Chiara”. Le sofferenze tra i dipendenti della sanità sono più generalizzate di quanto non si creda. Un’ostetrica o una ginecologa possono trovare facilmente nuove opportunità di impiego sul territorio, fuori dall’ospedale. Invece, per poter svolgere la propria attività, un chirurgo ha bisogno di un’équipe. Che solo l’ospedale può assicurare. E se a un chirurgo capace è impedito, magari, di entrare in sala operatoria perché dà fastidio a qualcuno, non ne risentirà solo il malcapitato ma l’intera struttura. Allo stesso modo, se un chirurgo o un ginecologo di un ospedale periferico effettuano un intervento alla settimana ne risentiranno la capacità professionale e i pazienti che ricorreranno alle loro mani. Il medico è come il pilota di un aereo. In caso di emergenza, più ore di volo ha conseguito e maggiori sono le possibilità di portare a terra il velivolo coi passeggeri sani e salvi.
La Provincia di Trento mena vanto di aver sottoposto le proprie strutture sanitarie alla valutazione di Istituti di certificazione, anche internazionale. Naturalmente con risultati lusinghieri. Non consta che sia stata svolta di recente un’indagine capillare sul “benessere dei dipendenti”. L’ultimo sondaggio, peraltro anonimo, risale al 2013. Così come non è pervenuta una visita (in incognito) nei reparti ospedalieri di presidente e assessora alla sanità. Dove avrebbero trovato magari la “città del Sole” di Platone e Campanella, o forse no.
A Trento, le scorse settimane, sono arrivati gli ispettori del ministero della Sanità, mossi da un’interrogazione parlamentare partita dalla Calabria. Accolti da sorrisi tirati (nascosti sotto le mascherine) e dai corridoi tirati a lucido come, in genere, lo sono anche nei tempi normali. Ma questi non sono giorni ordinari. C’è un gorgoglio sotterraneo che percorre i corridoi e le stanze ovattate di medici e infermieri. Stremati da mesi di trincea, da turni massacranti, da bardature soffocanti.
In tanti guardano a loro senza sapere o fare memoria che siamo arrivati a questo punto non già per colpa del personale o di taluni dirigenti, ma per una riforma voluta 42 anni fa. Da quando sono nate le USL, confluite poi nell’Azienda sanitaria unica, i pazienti non sono più chiamati così. Sono “utenti”, che equivale a “clienti”. L’ospedale però non è un supermercato e se un contenimento delle spese va fatto non può essere sulla pelle di chi ci lavora e, a cascata, su chi da quel lavoro trae esclusivo beneficio: il paziente e la collettività.
L’aver trasformato gli ospedali e i servizi sanitari in Azienda ha costretto i medici a diventare burocrati, i primari a fare i manager. E se il medico deve guardare al benessere del paziente, il dirigente dell’Azienda deve guardare al bilancio. Che nel campo della sanità non può essere in attivo perché la malattia è un pozzo senza fondo. Ma dentro quel pozzo l’assemblea straordinaria di piazza Dante non ha guardato. Chi sperava in una soluzione condivisa fra maggioranza e opposizione, dopo il dibattito del 19 luglio in Consiglio Provinciale a Trento, dovrà attendere tempi migliori. E intanto i problemi urgono, il personale della sanità è sfiancato e la pandemia è ancora in agguato. In questo frangente, tornano in mente i versi del poeta vicentino Arnaldo Fusinato sulla caduta di Venezia (1848): “Il morbo infuria/ il pan ci manca/ sul ponte sventola bandiera bianca”.
2 commenti
“Le sofferenze tra i dipendenti della sanità sono più generalizzate di quanto non si creda”……?!?!? E da cosa deriva cotanta sofferenza!? Da contributi, indennità e amenità tali da portare la remunerazione di un dirigente medico a oltre il 50% in più di un collega del vicino Veneto dove la Sanità è riconosciuta essere eccellente!?!???
Chissà perché non si riesce a trovare specialisti per coprire i vuoti di organico e sostituire i medici che vanno in pensione?